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Ma i dati sono davvero leggeri?

·1061 parole·5 minuti
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“È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso.”

Ma i dati sono davvero leggeri? Siamo generalmente portati a pensare che abbiano un peso e un ingombro trascurabile. Non ci facciamo infatti molti scrupoli quando si tratta di accumulare canzoni, serie tv o documenti di altro tipo in grande quantità. In linea di principio ciò che ci interessa davvero e di cui necessitiamo sta tranquillamente in un

hard disk (in generale eh!), comprese anche una serie di cose superflue che non torneranno mai utili e un’altra serie di cose di cui nemmeno ci ricordiamo l’esistenza.

Occhio agli elettroni! Per qualche fantastilione di ebook di troppo, più di un viaggiatore Ryanair non ha potuto portare il suo bagaglio in cabina…

In più ci sono tutti i dati che creiamo senza neanche accorgercene: like, tweet, post, statistiche di utilizzo e altro nemmeno rientrano nella nostra considerazione. Eppure il dato fisicamente occupa del “posto”, ha un suo “peso”, poco, per carità, magari pochissimo, ma comunque lo occupa, pesa. Creare e stoccare milioni di dati ci immaginiamo dunque che occupi un po’ più di posto, immaginiamo che una piccola media azienda abbia bisogno di un bel po’ di posto, che un’università abbia bisogno di parecchio posto, che un istituto di previdenza sociale nazionale abbia bisogno di tantissimo posto, e via dicendo.

E come si chiama il posto dove sono conservati i dati? (la domanda suona un po’ infantile, ne sono conscio). Si chiama data center (o anche server farm) e si tratta di un luogo in cui il dato non prende forma, ma sicuramente si palesa in tutta la sua volumetria, in tutto il suo ingombro (e anche, ovviamente, il suo peso).

 

google7Scoop di Storyfilters: Google ha copiato lo screensaver di Windows?

I data center di Google per esempio, dove presumibilmente sono contenuti fisicamente tutti i dati personali degli utenti di Gmail, i nostri Google Docs e i documenti di Drive, le statistiche delle nostra ricerche e chissà cos’altro, assomigliano a delle enormi fabbriche sparse per il mondo, con i tubi tutti colorati e in generale pochissime persone che ci lavorano dentro. Cioè, sono delle fabbriche ma senza umanità e sudore e polvere e rumori assordanti; sono un luogo nuovo, un incrocio tra il silenzio e la desolazione dei cimiteri nei giorni feriali e l’asepsi degli ospedali. E non ci sono solo quelli di Google, ci sono quelli di Facebook, di Aruba e di tutte le aziende che offrono un servizio di hosting.

Per essere leggeri e non avere troppi dati da conservare sui nostri hard disk possiamo dunque affidarci a dei servizi di hosting, che oltre a conservare i nostri dati nei loro data center ci permettono anche di gustare il senso di leggerezza che l’assenza di supporto sembra portare. Perché in effetti è di questo che si tratta: di un’apparente sparizione del supporto (cd, vinili, libri, dvd, videocassette) in favore di oggetti/interfacce, piccoli calcolatori portatili che sembrano composti di solo intelletto e poca materia.

Assistiamo dunque a un fenomeno per il quale la leggerezza diventa un servizio (a pagamento o gratis, che poi è comunque a pagamento ma in forma non pecuniaria, concediamo dati che nemmeno sappiamo di creare per utilizzare servizi attraverso i quali creiamo ulteriori dati di immenso valore economico continuando a non sapere di averli creati e così via) e soprattutto la leggerezza diventa una percezione, non un annullamento di peso: i dati non è che sono leggeri, sono semplicemente altrove, lontano da noi, sono impercettibili, ma ci sono eccome e con essi anche il loro ingombro.

Si aprono dunque alcuni scenari possibili. Il primo è legato al futuro dei data center, alla loro quantità, qualità, accessibilità, costo, impatto sul territorio, sicurezza. Si creerà (magari si è già creato) un fenomeno similare a quello delle banche svizzere e dei paradisi fiscali, piani di accumulo dati per famiglie e per privati, eredità di dati dei nostri cari che passano all’aldilà, oppure ci affideremo a server privati, dovendoci però occupare della manutenzione e della sicurezza. Cosa sceglieremo di fare?

Il secondo è legato a ciò che faremo con tutti questi dati. Smetteremo di creare così tanta informazione? Probabilmente no, molta dell’informazione che creiamo nemmeno siamo consci di farlo. Probabilmente staremo più attenti a cosa conservare e cosa invece potremo buttare, e probabilmente oltre a doverci servire di opportuni archivi digitali dovremo anche dotarci di sapienti archivisti digitali che ci aiutino a gestire la mole di dati che tra qualche anno ci troveremo ad avere. Saremo costretti a costruire dei filtri il cui obiettivo sarà quello di alleggerire il peso della nostra memoria digitale senza perdere dati, anzi permettendoci di accumularne sempre di più.

Il terzo è legato alla coscienza che abbiamo del dato e alla sua dimensione fisica e d’informazione. Siamo così tanti abituati a pensare il mondo diviso tra bit e atomi, tra corpi e anime, che tentiamo sempre di più di visualizzare le due cose completamente distaccate, l’informazione slegata dal supporto, il corpo, stravaccato sul divano, staccato dall’intelletto, che invece può navigare liberamente sul web. Sembra si stia perdendo coscienza del fatto che la materia è informazione per essa stessa, che bit e atomi sono le due facce della stessa medaglia, non due elementi separati (o separabili). Nel cammino che l’umanità sembra voler compiere verso l’immortalità siamo portati a pensare che l’anima possa sopravvivere al corpo, ma continuiamo a scontrarci con l’amaro fatto che intelletto e organismo viaggiano di pari passo, uniti nello stesso destino. Dov’è allora la leggerezza? La leggerezza non è unicamente nel rendere i dati leggeri, le canzoni leggere, i film leggeri e i libri impalpabili, la leggerezza è nel rendere leggeri noi stessi, anima e corpo, come in un viaggio. La leggerezza è la capacità di immergersi nel fluido contemporaneo dell’informazione e di riuscire galleggiarci sopra, facendo emergere l’essenziale.


Scritto da Andrea Rosada | @_caporosso